Frenesia di un asintoto terreno
Frenesia di un asintoto terreno
C’è silenzio e… Silenzio… (altri richiami dal passato)
Reminiscenze shakespeariane delineano la consapevolezza d’una realtà soggiogata al frastuono generato dal nostro frenetico divenire. “Meglio essere re del tuo silenzio che schiavo delle tue parole”, con questa enigmatica sentenza il noto drammaturgo inglese si opponeva alla mediocre ipocrisia di sterili conversazioni preconfezionate, omologate alla fatiscenza delle nostre coscienze ed assuefatte dal poderoso slancio dell’indifferenza. La negligenza del dialogo fra gli uomini rende questi gracile preda delle calunnie terrene; l’inconsistenza di un reale confronto condanna ogni individuo all’aridità dei sensi. E’ proprio questa incapacità di abbandonarsi alla maestosità dell’universo a proporsi come opprimente coercizione; l’uomo si vede privato di quel suo pascoliano stupore a cui tanto rimase legato in tenera età. Sono le menti dei più piccoli, inconsapevolmente innocenti e malleabili, ad alimentare la flebile fiamma della speranza; esse si divincolano da ogni razionale schematizzazione del pensiero per intraprendere i più tortuosi sentieri della fantasia. Questo insospettabile paradosso è dovuto alla meticolosa contemplazione del silenzioso susseguirsi delle stagioni: l’ultimo volteggio di una foglia in autunno, l’esile emersione delle margherite fragranti dall’uniformità di un prato estivo. Sono solo alcuni esempi di elementi in grado di apostrofare l’iperbole della meraviglia. L’indiscutibile bellezza della natura si scontra, però, col ridondante frastuono di questi nostri giorni fuggitivi, tinteggiati da pennellate amaramente studiate per precluderci la possibilità di sognare. La tonalità purpurea della caotica instabilità cittadina vince il bianco acceso del silenzio, che non è tanto l’assenza di ogni struttura fisica, quanto l’legante equilibrio delle emozioni. Il regno del silenzio non vanta invalicabili confini; consente l’accesso agli sporadici cuori dei pochi superstiti cui sarà concesso di percepire la propria pragmatica precarietà. Siamo piccoli boccioli di rose che, indebolite dalla pesantezza dell’autunno, percepiscono la dilatazione voluta dal tempo. I rumori della società di massa scandiscono l’estinguersi di quelle inappellabili lancette, che ancora spogliano l’eternità delle sue tumefatte sembianze. Il silenzio è, al contrario, un’evasione attuabile in due modi: tramite passione o tristezza. Il primo metodo vanta un energico vitalismo caratterizzato da un successivo appagamento; il secondo prevede un’arrendevolezza disarmante, dettata dall’inconsistenza del flusso terreno. La contemplazione dell’infinito oceano del silenzio, sia essa dettata da una gioia estrema o da un osceno dolore, è una singolare forma di empatia, solo apparentemente in contrasto con la comunicazione standardizzata dei nostri giorni. Quante storie promettono i nostri occhi sognatori! Se l’umano desiderio d’essere compresi dovesse rimanere utopia astratta e surreale, sarà solo per la nostra incapacità di assecondare le incertezze dei nostri cari; perderemo quella complicità infantile che ci rese umani e ci lasceremo plagiare da stereotipi e pregiudizi. Non comprendendo i nostri famigliari, ci immaginiamo meticolosi cittadini di illusorie piazze virtuali. L’iscrizione a social network, più trafficati di una metropoli statunitense, nasconde spesso il desiderio di non essere esclusi dal mondo, ma a quale società apparterremo? Ad un surrogato di esistenza digitale, schematizzato dalla mediocrità della disinformazione controllata. Siamo marionette schiavizzate da burattinai apatici e meschini. Abbiamo rinnegato la magniloquenza del silenzio per prostrarci all’indisciplinato fragore di questo secolo corrotto. Temiamo l’oblio uditivo, poiché esso ci spoglia dei nostri pregiudizi per concretizzare una riflessione. Per un attimo, è possibile interrompere l’inoppugnabile frastuono del denaro per divincolarsi dalla morsa dell’intolleranza. Accogliere il silenzio significa veder riaffiorare un ricordo dimenticato per farlo nuovamente nostro. Questa possibilità straordinaria è un dono incompreso, la più alta aspirazione delle virtù umane. La quiete dei sensi racchiude i più grandi rumori della nostra epoca e l’eco di quel passato che ora tenta vanamente di riemergere. Il silenzio è composto da una tinta uniforme che corrode il pedissequo torpore della solitudine; non è, certamente, identificabile nelle minorate sembianze dell’omertà. Assecondandolo si trasgredisce alla velenosa intolleranza del secolo corrente; il suo canto riproduce l’effimera danza dell’esistenza. Siamo foglie avidamente destinate a librare nella precarietà dell’infinito. Il nostro sfarfallante volteggio dipinge abbozzi di primavera sulle tinte scure dell’inverno, consentendoci di metabolizzare l’angoscia generata da una radicale presa di coscienza. E’ dalla nostra dipartita muta che può rinascere l’estasi delle stagioni. Il silenzio incarna il fragore prodotto dalle nostre consapevolezze smascherate, contrapponendosi al fremito di questa nostra società corrotta. Non esiste il silenzio totale, proprio perché esso amministra un insieme di stimoli uditivi scampati al grigiore dei sensi conosciuti. Come entità assoluta pregiudica, forse, il nulla; l’umana tensione verso un infinito non più tale poteva esser facilmente rintracciata nel voto religioso degli eremiti. Anche i giovani sognatori devono essere educati alla riflessione; saranno proprio loro ad accogliere il respiro degli alberi per rinnegare l’inquinamento acustico della nostra società globalizzata. La riflessione scaturita dalla contemplazione del silenzio incarna la rivoluzione dei sensi contro l’ignobile dittatura dell’ipocrisia. Le sfarfallanti lucciole che ogni notte animano la solennità del cielo tentano di trasmettere emozioni troppo caste per la perversione umana. Il docile bisbiglio del vento tra i rami squassati della campagna amica non riesce ancora a ramificarsi nelle sterili terre dei nostri animi corrotti. Per accogliere il benevolo messaggio della natura dovremo prima trovare l’umiltà di riconoscere quelle antiche colpe tanto smentite ed il coraggio di accettare quelle responsabilità che ci videro indifferenti al frenetico incontro con l’esistenza. Ritardatari cronici ai molteplici appuntamenti con la nostra coscienza, ignoriamo il flebile richiamo dell’eterno; siamo destabilizzati dal timore che dietro agli assordanti silenzi delle costellazioni possa nascondersi una realtà inconcepibile per il metodico intelletto dell’uomo moderno. La radicalizzazione sociale dell’ideologia monopolistica, dettata dalle fazioni politiche più estremiste, schematizzò la perversione terrena entro limiti disegnati col sangue dei pochi sopravvissuti al sistema. Assimilando i modelli immorali della nostra società mondana abbiamo alimentato il vile riverbero del consumismo. Rinnegata la nostra straordinaria singolarità, la diversità diviene una condanna e l’abbattimento dei confini, delineati da una pragmatica matrice conformista, irrompe ferocemente nelle nostre esistenze, scardinandole. La rivalsa della fantasia deve inaugurare la sua ascesa dalle ceneri dell’omertà, alimentando il lamento scarno della nostra evasiva immaginazione. Consapevoli della precarietà dei sensi, potremo irrompere nell’autarchica fortezza dei pregiudizi, per irradiare col riverbero del silenzio l’assordante spettro di questa nostra “società da palcoscenico”, che costringe ogni ignara anima a divenire inconsapevole protagonista di una raccapricciante tragedia mascherata. Arenarsi sui lussuriosi scogli dell’accondiscendenza significa arrendersi all’omologazione propostaci da un mondo incoerente, monopolizzato dalle presunzioni dell’intolleranza. Esplorando le immense praterie dei sogni silenziosi, ci ribelliamo alla monocromaticità di una realtà impropriamente semplificata. Non è possibile schematizzare le molteplici sfumature delle tinte terrene; per riconoscerne l’essenza è necessario percorrere le scoscese alture dello scibile, apostrofando asintoti di emozioni, solennemente proiettati verso l’eloquenza del cielo stellato. Completeremo il nostro sfarfallante viaggio tra gli indisciplinati stimoli uditivi di questi tempi fuggitivi, perché, in fondo, il silenzio stimola ed incarna la nostra capacità di opporci alla concitata incomunicabilità dell’epopea terrena.
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