L’ultima sinfonia
L’ultima sinfonia
Spazio ad un mio racconto premiato in diversi concorsi letterari e ora destinato alla sezione #Amarcord:
All’alba d’un tramonto su sfondo rosso sangue sibili dannati da un luogo eterno giunti, scandivano testardi una melodia d’atroce sofferenza. Invisibili, abbracciati dalla meschina nebbia dell’intolleranza generale, volti scavati senza clamore faticosamente avanzavano sul deserto sabbioso d’un ingiusto Purgatorio, non obbligato a conferire la salvezza ai sopravvissuti. Copiose lacrime crudelmente amare solcavano d’un bimbo il volto, mentre l’umana incandescenza d’una madre spaventata avidamente custodiva il pargolo, unico vanto d’una vita estinta. Artificiali tuoni maledetti dei profughi in fuga impietrivano i cuori, perpetuamente percossi a ritmo pendolare. Inermi i corpi da sofferenza vinti, che rassegnati s’accasciavano un’ultima volta ancora. Iracondo fiume esondato nella valle dell’incuranza assoluta, un popolo fuggiva ed un altro lo rastrellava. Dall’alto la diaspora delle nuvole seguiva quella terrena piangendo per ciò che veniva costretta a vedere. Il vento cantava di storie passate; per anni Madre Natura artista narrerà malinconica questa pesante verità; la musica dell’anima pareva l’unica in grado di rammentare questo massacro senza proferire distorte note. Vinceva la notte il fatiscente duello con il sole che vigliaccamente fuggiva da quell’orrore straziante. La pragmatica discontinuità tra la salvezza ed il suo antipodo impensieriva i pochi sopravvissuti che debolmente dubitavano della loro scelta. Angusta la via della redenzione, oltraggioso il destino di chi per salvare l’amico aveva sacrificato se stesso. D’un vecchio afflitto oscurava il pianto, quella bianca foschia indelebile, divina censura per l’innocente cuore, forzato ad assistere a tanto male. Laggiù, tra la nebbia, un tremolar soave e quel colore che l’Inferno a tutti nascose. Salate come lacrime, ritmicamente le onde s’infrangevano sulla riva, piatto il mare all’orizzonte. Un nuovo viaggio cominciava dove il precedente si era concluso, nella notte dei soprusi, traghettatori senza nome della morte eran seguaci e di questa mascheravano l’avvento. Quante decisioni apparentemente giuste si rivelano poi errate ai nostri occhi? Saturo d’aria il gommone, che proprio questa negava agli stipati passeggeri, acuto il grido smorzato d’uno sventurato caduto in acqua, imbarazzante la superficialità con cui profughi della Vita venivano ignorati. Crudelmente la saracinesca marina cullava i dimenticati da un Dio in cui non credevano, mentre la musicale brezza cristallina accarezzava le guance dei più patiti, quasi a volerli rassicurare. Posticipato l’approdo a quella meta, tanto finale quanto iniziale, vicina più che mai quella luce che il giorno precedente l’umana stirpe aveva abbandonato. Quanto buio sotto al sole; i pochi fiduciosi venivano zittiti, mentre s’innalzava smarrita la silenziosa serenata d’un mare stanco, senza confessare a nessuno che sarebbe stata lei l’ultima sinfonia della loro estate.
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