“Ogni tempo ha il suo fascismo”
“Ogni tempo ha il suo fascismo”
Quello che avete davanti a voi non è un vero e proprio articolo di attualità, è piuttosto una riflessione che scrissi quando ancora frequentavo le superiori e che ripropongo qui, fra un “amarcord” e l’altro, perché non bisogna mai abbassare la guardia, oggi più che mai. Riflettere su quello che è stato rappresenta l’unica possibilità per impedire che grandi tragedie si ripetano.
“Ogni tempo ha il suo fascismo”, con questa lapidaria asserzione Primo Levi ammoniva l’inesperienza di una generazione apparentemente scampata alle dittature tiranniche del secolo scorso. Questo labile scarto temporale diviene una dannazione ingiusta capace di offuscare la vista di chi, come noi, si ritiene figlio di pace ed uguaglianza. La prepotenza del regime si concretizzò nell’oppressione forzata dell’individuo, privato della sua straordinaria singolarità e plagiato secondo gli ideali fascisti. Il monopolio dell’informazione e l’iniqua spartizione di una cosiddetta “giustizia” furono mascherati in modo da alimentare nei cittadini la malinconica nostalgia per quel passato governato dall’ordine sociale, di cui il duce si fece indomito ambasciatore. Ciò non differisce molto dalla mediocrità moralista dei nostri giorni; multinazionali senz’anima speculano su esistenze svuotate di ogni valore, assecondando pedissequamente le leggi materialiste del consumismo. Siamo automi assuefatti dalla moda ed omologati alla coscienza di massa che internet diffonde. Questa costrizione non si discosta molto dall’oppressione psicologica poc’anzi citata; il fascismo non è tanto un partito politico, quanto una limitazione forzata del pensiero umano, la sua schematizzazione attraverso limiti prestabiliti ed inviolabili. La nostra accondiscendente “generazione virtuale”, costantemente esposta all’influsso ipnotico delle pubblicità, espatria in un “mondo digitale” da cui diviene poi impossibile evadere. Isolandosi dalla realtà l’uomo si dimostra più facilmente governabile e dunque soggiogabile; facendosi guidare dalle apparenze si percepisce l’essenza della libertà solo perché l’ideale propostoci è una rielaborazione tirannica della nostra società corrotta. La maschera della schiavitù fu già riconosciuta dal genio di Leopardi, il quale, nel suo “Dialogo tra la Moda e la Morte”, dipinse l’amara consapevolezza di un’esistenza relegata al monopolio di quelle apparenze che l’uomo non è più in grado di riconoscere. I ritmi frenetici di questa civiltà globalizzata ci costringono a rinunciare alle nostre ambizioni, ma senza passione non vi è libertà: il tempo inaridisce rendendoci burattini apatici e manipolabili. La negazione del diritto di sognare è la più opprimente tirannia attuabile da una fazione politica: l’assenza delle passioni è la morte della nostra straordinaria singolarità. La diversità è un dono prezioso da custodire con cura, ma ormai non viene più riconosciuta tale. Stereotipi e pregiudizi imbastiscono una manzoniana “caccia all’untore” col fine di individuare un colpevole sistematicamente scelto a tavolino; “la banalità del male” risiede proprio nell’inconsapevolezza del nostro agire. L’omologazione delle coscienze rende succubi della matrice tirannica della xenofobia; lo riconobbe anche Hannah Arendt, autrice di un’opera sconvolgente perché vera. La filosofa tedesca analizzò la violenza psicologica silenziosamente perpetrata anche ai soldati della sua stessa nazione; l’ideologia nazi-fascista opprimeva la volontà dell’individuo esaurendone il personale slancio vitale. Ai giorni nostri la politica non impegna più l’intera giornata, ma viene paradossalmente evitata, poiché considerata sinonimo di corruzione. Questa nostra noncuranza sposa l’omertà delle coscienze, dando al male la possibilità di radicarsi nelle nostre vite. Le testate giornalistiche sono attratte dalla risonanza di tragedie spesso evitabili; nel momento in cui un barcone saturo di disperati si arrende alle correnti del Mediterraneo l’eco dell’agonia s’infrange sugli scogli per rimanervi. Quando gli ascolti precipitano il male viene assecondato dalla complicità dei vivi. Lo sbarco rubato a quelle esistenze disgregatesi non è forse una contemporanea trasposizione delle guerre coloniali del duce? L’obbligo di accodarsi al treno del progresso non ricorda la coercizione di aderire, almeno formalmente, all’ideologia fascista? Fino a quando non troveremo la forza di opporci sarà impossibile divincolarsi dalla gelida morsa delle apparenze, che dovrà essere combattuta con coraggio per evadere dallo stato vegetativo cui fummo ingiustamente condannati. Siamo cuori ribelli, gocce d’acqua liberatesi dall’oppressione del mare, particolari dimenticati di opere incompiute, vogliosi di partecipare a quel conteggio sociale che, pur volendoci escludere, sa di non poterci ignorare. L’orgogliosa sinfonia della giustizia non ha ancora esaurito le note del suo spartito; anche una sola fiamma riverbera fieramente fra le tenebre. Esaltando il fremito della rivolta diveniamo ritornello di quella melodia soave che non interrompe mai il suo pellegrinaggio, perché, come ci ricorda il noto cantautore emiliano Luciano Ligabue, “c’è sempre una canzone”.
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